28 Ago 2005

VOLONTARIATO IN KENYA: TRENTA GIORNI CHE CAMBIANO LA VITA

Missione è partire, andare, lasciare tutto, uscire da noi stessi, spaccare la corteccia dell’egoismo che ci rinchiude nel nostro piccolo io. È smetterla di girare intorno a noi stessi, come se fossimo noi il centro del mondo e della vita. È non lasciarsi intrappolare dai problemi del mondo piccino al quale apparteniamo, l’umanità e più grande! Missione è accorgersi degli altri, scoprirli e incontrarli. E se per incontrarli e amarli è necessario solcare i mari e volare i cieli, allora, missione è partire e raggiungere i confini del mondo

Leggendo queste parole di H. Camara ho sentito un profondo desiderio di lasciare tutto e partire. Ma, con chi partire? Come dirlo ai miei genitori?

Sin da piccola ero affascinata dal meraviglioso “continente nero”. Avevo solo sei anni quando l’Africa mi ha catturato il cuore e l’anima! Passavo ore ed ore davanti alla TV, incantata dalla voce di Piero Angela che descriveva la Savana, e con il passare degli anni il “continente nero” è diventata una meta da raggiungere.

Ho solo ventuno anni, ma credo che sia giunto il momento di salire su un aereo e volare dall’altra parte del mondo. Non voglio, però, andare in Africa da turista curioso e distaccato verso quella realtà. Voglio vivere un’esperienza unica. Voglio “entrare” nel cuore della vita dei Samburu.

Africa: il sogno che diventa realtà

Sono le ore 21:30 del 25 aprile 2005. Il cellulare squilla. Sul display compare il numero di Don Fernando. Giusto il tempo di dire Buonasera Don Fernando, e senza mezzi termini lui pronuncia queste parole: Sei dei nostri, si parte! Da tempo ero in contatto con lui e Don Donato, due parroci della diocesi di Brindisi-Ostuni che hanno vissuto in Kenya. Quella sera, però, la notizia attesa per anni è giunta inaspettatamente come un fulmine a ciel sereno. Il cuore inizia a battere fortissimo, Don Fernando continua a parlare, ma la mia mente sta già immaginando l’Africa. Non mi sembra vero, un mese in Kenya, nel cuore della Savana, ma soprattutto presso tre missioni: Archer’s Post, Karrare-Marsabit e Laisamis.

I mesi che precedono la partenza sono intensi: incontri di formazione e preparazione non solo psicologica, ma anche fisica. Impossibile pensare di andare in Kenya senza le giuste precauzioni. I vaccini sono fondamentali.

Una cosa “curiosa” sono i pensieri di chi mi conosce. C’è chi mi reputa una “pazza” e vede questo viaggio come qualcosa di pericoloso e troppo grande per me. L’Africa è quella terra piena di pericoli e malattie, malaria, colera, Aids…mi dicono. C’è poi chi non comprendendo le motivazioni e il sentimento che sono alla base di questo viaggio pronuncia la fatidica frase: ma chi te lo fa fare a ventuno anni?! Faresti meglio a divertirti!

Ore 9:30 del 13 luglio 2005 siamo tutti in aeroporto pronti per partire, l’atmosfera è elettrica e le sensazioni che si provano sono fortissime. Le persone giunte in aeroporto per salutarci sono tantissime. Gli occhi sono pieni di lacrime, basta poco e si scoppia a piangere, è gioia mista a paura ed entusiasmo. Per un attimo provo un forte senso di smarrimento, è come se tutte le certezze che mi hanno fatto arrivare a questo punto in un istante svanissero e si dissolvessero nell’aria…È veramente una pazzia quella che sto facendo?!

Il volo diretto non esiste. Le tappe sono: Brindisi-Roma, Roma-Addis Abeba, Addis Abeba-Nairobi.


14 luglio 2015 Arriviamo a Nairobi alle cinque del mattino, ad aspettarci in aeroporto ci sono i padri di Laisamis, Isahia ed Edward, Joversinho che opera nella missione di Karrare-Marsabit, e Daniel.

Sono in Africa!

Appena fuori dall’aeroporto, l’impatto visivo è devastante. Il traffico caotico e ingarbugliato di Nairobi è qualcosa da non crederci, macchine che sfrecciano dappertutto senza alcuna regola. Tantissimi sono i matatu di ogni genere che, stracolmi di persone fino all’inverosimile, sostituiscono i nostri comodissimi taxi. Lungo il ciglio della strada infiniti mercatini di frutta e verdura. Pezzi di lamiera appoggiati uno accanto all’altro creano le “mura” di negozi (se così si possono definire) dove si vende di tutto e di più: vestiti, farina, pane, carbone, patate. Un fiume di gente: uomini, donne, bambini che corrono veloci come se fossero inseguiti da chissà chi o cosa. Corrono per raggiungere il proprio posto di lavoro o la scuola.

La nostra prima tappa è Westlands sede dei Padri della Consolata, dove ad accoglierci ci sono Monsignor Virgilio Pante vescovo della diocesi di Mararal, e Monsignor Ambrogio Ravasi vescovo della diocesi di Marsabit. Dopo il benvenuto iniziale veniamo informati che il giorno precedente nel nord del Kenya, a pochi chilometri da Marsabit era scoppiata una violentissima faida tribale tra due etnie: i Gabbra e i Borana. Non ci possiamo far prendere dalla paura, dobbiamo portare avanti la nostra missione e con lucidità affrontare ogni singolo momento. Terminato il pranzo, riprendiamo il nostro viaggio in Jeep. Dobbiamo percorrere circa trecento chilometri per raggiungere la prima missione.

Arriviamo ad Archer’s Post nel tardo pomeriggio. Ad accoglierci ci sono due missionarie laiche: Matilde e Adriana. La stanchezza è tanta, una doccia veloce, la cena e poi tutti a letto…Ci attende un mese intenso.

I giorni di permanenza in Africa sono stati caratterizzati da piccoli lavori che abbiamo fatto all’interno delle missioni: pitturazione delle pareti, delle costruzioni (semplici pezzetti di legno) che i bambini dell’asilo utilizzano per giocare, riparazione di alcune cose rotte,  ma soprattutto momenti di condivisione con le donne e i bambini nei villaggi, attività di gioco nell’asilo e nell’ospedale.

L'Africa che ti travolge e ti sconvolge

Sono meravigliata dalla bellezza di questo popolo. Qui il tempo sembra essersi fermato. Sono popoli ricchi di tradizioni antiche, usanze e costumi tramandati da generazioni.

Le donne, Samburu e Rendille, con i loro corpi così magri avvolti in drappi rossi, i loro volti segnati dalle fatiche quotidiane. Ora più che mai mi rendo conto che tutto ciò che per anni ho letto, ascoltato e visto in TV è proprio vero: l’Africa va avanti grazie alle sue donne. Sono loro che sin dalle prime ore del mattino si preoccupano delle necessità della famiglia. Sono loro che in qualsiasi condizione: sane, malate, incinte fanno chilometri e chilometri a piedi per procurare qualcosa da mangiare e da bere. L’uomo nella loro società è quasi del tutto assente.

I bambini che sbucano da ogni parte. Mi vengono incontro correndo e gridando: Mzungu…Mzungu! che in Kiswahili vuol dire “bianco”. Altri intonano la canzone di benvenuto, altri ancora ci chiedono le caramelle (peremenda). Sono loro che con i loro sorrisi, la loro gioia di vivere rendono l’atmosfera frizzante e allegra. Sono tutti di una bellezza disarmante, i loro occhi così grandi, neri e allo stesso tempo pieni di speranza e chissà quanti sogni. Vivono nel cuore della Savana, tra la terra, la polvere, l’aridità. Qui l’acqua è un bene raro. I loro piccoli piedi sono consumati dagli infiniti chilometri che ogni giorno percorrono per procurarsi del cibo, per pascolare il gregge o per andare a scuola. Non hanno nulla, eppure sono felici. Nessuno si lamenta, non un litigio, non un dispetto, ma solo tanta solidarietà. Quando la sera torno nella missione sono irriconoscibile. Anche i miei vestiti hanno preso il colore della terra, ma non importa, la testa e il cuore esplodono.

L’Africa è questa: sorrisi straordinari e “schiaffi” in pieno volto.

La scuola, una struttura priva di ogni genere di comodità. Le classi numerosissime, a volte raggiungono anche i settanta alunni. I banchi non sono sufficienti per tutti, molti siedono a terra. I bambini, che vanno a scuola sono così fieri e orgogliosi di indossare l’uniforme. Qui, poter andare a scuola è un vero privilegio. Entriamo in classe, non si sente una sola parola, tutti seguono la lezione con attenzione, assetati di conoscere e volenterosi di crescere e formasi.

Gli ospedali, luoghi dove il mio cuore si spacca ogni volta che varco la porta delle singole stanze. I miei occhi non possono sopportare tanta sofferenza. Non ci sono parole per descrivere quello che ho visto e provato. A fine giornata è faticoso chiudere gli occhi e dormire.

Il "mal d'Africa" esiste e non voglio guarirne

I giorni passano e io li vivo tutti intensamente. Trenta giorni in Africa non sono tantissimi, ma neppure pochi. Si tratta di un tempo che ti permette di creare dei legami molto forti. Passo ore ad ascoltare le loro storie e inventare dei piccoli giochi con i bambini. Vederli correre dietro ai palloncini colorati o ridere allo scoppiare di una bolla di sapone mi emoziona. L’Africa mi ha fatto riscoprire quella semplicità che l’Occidente ha ormai perso.

Raccontare trenta giorni di volontariato in Kenya è davvero complicato. Ho vissuto nel cuore della Savana a stretto contatto con la popolazione locale. Ho visto i Samburu danzare, cantare, sorridere (sempre). Ho riscoperto i valori veri, quelli che noi occidentali abbiamo perso: solidarietà, umiltà, accoglienza, educazione. Ho capito cos’è la fame, la sete, la povertà, ma soprattutto ho compreso cos’è la ricchezza d’animo e la libertà.

Per anni ho sentito parlare di “Mal d’Africa” senza mai comprendere l’essenza di questo sentimento. Io l’ho vissuto sulla mia pelle e vi posso dire che il “Mal d’Africa” esiste! Il “Mal d’Africa” sono gli occhi dei bambini che ti entrano dentro fino a toccarti l’anima. Il “Mal d’Africa” è la sveglia che suona prestissimo ogni mattina perché non voglio perdermi l’alba. Il “Mal d’Africa” sono le ore trascorse a guardare il tramonto e il cielo stellato di notte. Come posso spiegare la Via Lattea a chi non l’ha mai vista? Quali parole dovrei usare?

Ci sono esperienze che vanno semplicemente vissute, e questa è una di quelle.

Letto 1089 volte Ultima modifica il Mercoledì, 15 Maggio 2019 19:55
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