Da oltre dieci anni Bruno e Sonia gestiscono Il Pepe Nero e La Villa, un ristorante-boutique-hotel, situato a Pointe-Noire. Fino a pochi mesi fa, Bruno e Sonia erano dei conoscenti, avevo mangiato qualche volta da loro e di tanto in tanto avevamo scambiato qualche parola. A cambiare il tutto è stato Facebook. Da quando siamo diventati amici “virtuali”, abbiamo iniziato a conoscerci meglio attraverso i nostri scatti e racconti.
Il 20 ottobre 2021 era il compleanno di Bruno, un messaggio semplice:
- Bruno buongiorno e buon compleanno.
- Grazie. Vieni a prendere un cappuccino da noi?
Davanti ad un cappuccino ed un ottimo succo d’ananas Bruno e Sonia mi chiedono se mi avesse fatto piacere accompagnarli durante il fine settimana per un weekend tra Dolisie, Makabana e Kibouba. Bruno e Sonia conoscono il territorio molto bene e spesso dedicano il fine settimana ad uscite fuori porta.
Non ho esitato un solo istante ed ho accettato l’invito.
Il venerdì prima della partenza, coccolati (ancora una volta) dall’ottimo cappuccino de Il Pepe Nero, mi spiegano il motivo di questo viaggio. Il papà di Bruno, Fernando Eurico Barreto, è venuto a mancare il 13 settembre scorso ed il suo desiderio era quello di essere sepolto a Makabana, un villaggio a cento chilometri da Dolisie, nel cuore della riserva naturale di Tsoulu. In quel preciso istante ho capito che questo viaggio sarebbe stato molto più di un “semplice” weekend fuori porta. Bruno e Sonia, in quel momento mi stavano letteralmente aprendo la “porta” della storia della Famiglia Barreto.
Fernando Eurico Barreto, figlio di Artur Barreto (nato a Goa il 7 dicembre 1900) e Melita Matilde Do Carmo Rebello (nata a Goa il 15 luglio 1907), è il quarto di dieci figli. Quando Bruno mi mostra la foto dei nonni è difficile non emozionarsi. Un bianco e nero per nulla sbiadito dal tempo, lo sguardo ed il sorriso appena accennato sembrano “parlarmi”. La nonna, seduta, indossa un abito lungo, il nonno in piedi accanto a lei. È un ritratto d’altri tempi, intriso di eleganza raffinata e discreta.
Appena maggiorenni, Artur e sua moglie, giungono in Mozambico e il 10 giugno del 1929 Melita dà alla luce Fernando Eurico Barreto. Terminati gli studi a Goa, Eurico sarebbe dovuto andare in Sudafrica, ma la vita prenderà un’altra strada e all’età di 19 anni inizia a lavorare con il padre, Artur, in Mozambico.
Dall’India al Mozambico per poi giungere negli Anni 50’ a Cabinda. Una vita, quella dei nonni di Bruno, segnata da viaggi da un continente all’altro e che di generazione in generazione continua ancora oggi, perché non solo Bruno ed i suoi fratelli vivono in continenti diversi, ma anche i loro figli e nipoti.
Il viaggio da Pointe-Noire a Dolisie
Siamo partiti da Pointe-Noire poco dopo l’alba così da non rischiare di rimanere bloccati nel cuore del mercato alle porte di Pointe-Noire. Un mercato, quello di Vindoulou, che in tarda mattinata diventa brulicante di persone, macchine, motorini e camion; un imbottigliamento potrebbe obbligarci a rimanere fermi anche per ore.
Bruno e Sonia viaggiavano con il loro pick-up bianco che trasportava le biciclette, io e Frederico, fratello di Bruno li seguivamo. Sonia è “figlia d’Africa” perché nata e cresciuta in foresta dove ha anche frequentato la scuola. Tutti e tre conoscono il Congo meglio di me e quando tra tornanti e panorami mozzafiato Frederico si ferma davanti ad una sorgente d’acqua nel mezzo del Mayombe (un massiccio montuoso coperto da una fittissima foresta tropicale) a me non resta che fidarmi di lui quando mi dice: <<Se non hai paura, scendi, quest’acqua è la migliore che tu possa bere!>>. Io mi fido, scendo e…bevo. Acqua fresca e dissetante, acqua che avrà percorso chilometri prima di giungere lì, acqua che mai avrei pensato di bere.
Risaliamo in macchina e continuiamo il nostro viaggio tra racconti e brevi soste per ammirare la natura che esplode in tutta la sua bellezza e forza.
Da Pointe-Noire a Dolisie, sono circa 160 chilometri, non tantissimi, ma la strada (seppur asfaltata) non permette di procedere a velocità sostenuta perché piena di curve e pesanti camion che trasportano merci di ogni genere.
Sono le 10:30 quando arriviamo a Dolisie, giusto il tempo di lasciare le borse presso il KM Hotel e riprendiamo il viaggio con una sola macchina.
Dolisie – Makabana: cento chilometri di piste sterrate ed incontri inaspettati
Da Dolisie a Makabana sono poco meno di cento chilometri, questa volta però sono tutti e cento di pista sterrata. Alla guida c’è Bruno ed è sorprendente come lui padroneggi la strada. Guidare su questo tipo di strade non è semplice. Salite, discese, ma soprattutto buche, dossi o pozzanghere piene di fango appaiono all’improvviso e solo un occhio attento ed abituato può proseguire ad una velocità media di 80Km/h.
Qui il paesaggio muta in un modo che lascia senza parole. Se un attimo prima ai lati della pista si vedono distese di pianura, all’improvviso tutto cambia e ci si ritrova circondati da quello che chiamano il “mondo della luna”. Una catena collinare dal colore grigio, che durante il periodo delle piogge si ricopre di vegetazione. Ci siamo fermati per qualche scatto e la sensazione che si prova è difficile da spiegare, il sole scalda l’aria e la terra emana un calore che toglie il respiro.
Riprendiamo il nostro viaggio e quando le colline sono ormai alle nostre spalle, ci imbattiamo in una piantagione di anacardi. Ettari ed ettari di alberi. Non avevo mai visto un anacardio ed è stato interessante scoprire che è una delle poche piante sulle quali due frutti diversi crescono contemporaneamente. Ci fermiamo ad assaggiare il frutto quando in lontananza vediamo alzarsi la polvere, è un camion che arriva colmo di merci e persone. Si fermano a salutarci, chiediamo qualche informazione e ci dicono che la piantagione ha un’estensione di due ettari e mezzo.
Risaliamo in macchina e con un tacito accordo partiamo per primi. Sono le “regole” della foresta. I camion sollevano molta polvere al loro passaggio e se una macchina è dietro di loro, la visuale sarebbe del tutto impedita. Ecco perché ci lasciano andare…
Percorriamo pochi chilometri ed una buca che non riusciamo ad evitare fa sobbalzare la macchina a tal punto che la batteria si sposta. Siamo costretti a fermarci e riparare il danno. Questa sosta non prevista ci regala un altro incontro del tutto inaspettato: una donna a passo lento e pieno di fatica cammina sul ciglio della strada. La vediamo arrivare da lontano e quando è vicino a noi ci dice che viene dal villaggio di Makabana. Chissà quanti chilometri avrà percorso a piedi e quanti ancora ne dovrà percorrere. Le offriamo una bottiglia d’acqua ed un panino. <<Che dio vi benedica!>> esclama e sorridendo riprende il cammino.
Makabana: tra terra rossa e cori di bambini.
Arriviamo a Makabana e la sensazione che provo è la stessa di quando in Salento, a pochissimi chilometri dal mio paese, mi ritrovo a passare dal villaggio fantasma di Monteruga. A differenza di Monteruga, che negli anni ottanta si è completamente svuotato, a Makabana c’è ancora chi ci abita, ma quello che un tempo era il cuore pulsante del villaggio, oggi è fermo: la biblioteca, l’ospedale, lo stadio, l’economato.
Ad attrarre la mia attenzione è il "gigante della foresta": l’arbre fromager. Un albero della famiglia delle Bombacaceae o Malvaceae, il nome bizzarro che gli è stato comunemente attribuito deriva dal fatto che il suo legno veniva utilizzato nella fabbricazione delle scatole per i formaggi. A renderlo particolarmente unico ed attraente non è soltanto la sua maestosità (può raggiungere i 50 metri di altezza), ma anche il tronco ricoperto da grosse spine e la chioma sulla quale spiccano batuffoli di “peluria” biancastra e setosa. Questa fibra vegetale, leggera, impermeabile e non soggetta a putrefazione, viene spesso utilizzata (in alcuni paesi) per imbottire materassi, guanciali e cuscini. Il legno, invece, di colore chiaro, viene utilizzato per la fabbricazione di piroghe.
Proseguiamo il nostro viaggio attraversando un ponte di ferro sotto il quale scorre il Niari. Bruno e Sonia mi spiegano che il Niari e il Louessé si incontrano a Makabana ed entrambe le sorgenti affluiscono nel fiume Kouilou, il secondo fiume del paese, dopo il fiume Congo. La sorgente del Louessé sorge negli altopiani Batéké e scorre in direzione sud. Il Niari, invece, proviene dall’est del Congo. Il fiume Kouilou attraversa la foresta del Mayombe per poi sfociare nell’Oceano Atlantico ad una cinquantina di chilometri da Pointe-Noire (precisamente nel distretto di Madingo-Kayes).
Sono le 13:50 quando arriviamo al carrefour (incrocio) del villaggio dove Eurico ha vissuto fino al 2015. Ad aspettarci, seduti sotto l’albero, ci sono gli uomini del villaggio. Frederico li aveva avvisati del nostro arrivo e del perché andavamo. Il più anziano degli uomini indossa giacca e cravatta. Ha indossato l’abito elegante per accogliere la “delegazione che arrivava da Pointe-Noire”. È stato emozionante sentir parlare chi un tempo ha lavorato per la Foralac (una delle più grandi ed anziane società di legname della Repubblica del Congo, acquistata dalla Famiglia Barreto nel 1961). La riconoscenza che queste persone hanno per Eurico è qualcosa che fa venire i brividi. Grazie all’attività della Foralac, Eurico ha offerto opportunità di lavoro, ma non solo. Nel corso degli anni ha creato strade, ha costruito scuole, ha dato la possibilità a tutti gli abitanti di avere una casa dove arrivava luce ed acqua, e tutto questo, la gente del villaggio non potrà mai dimenticarlo.
La volontà di Eurico era quella di essere inumato a Makabana. Quando il mese scorso è venuto a mancare, la moglie ed i figli di comune accordo hanno sposato l’idea della cremazione così da poter tenere una parte delle ceneri a Londra, a casa della sua famiglia; una parte portarla in Portogallo, a Lisbona, accanto ai suoi genitori (Artur e Melita); una parte in Congo, a Makabana, perché è lì che lui ha vissuto gli ultimi anni della sua vita.
Bruno, Sonia e Frederico mi confidano che due erano le frasi che Eurico ripeteva spesso: la prima <<La vita è bella!>>; la seconda <<Nessuna montagna è abbastanza alta per non essere superata!>>...E sarà proprio su una collina che, tra qualche settimana, verranno tumulate le ceneri. A rendere tutto più toccante è il fatto che Eurico su quella collina ci andava spesso. Da lì, rivolgendo lo sguardo verso la valle, guardava il villaggio di Makabana e quella che era la sua azienda, rifletteva sui suoi progetti e si dava coraggio per andare avanti.
Scarichiamo le bici dal pick-up e una quindicina di uomini salgono dietro. Raggiungiamo la collina dove tra qualche settimana si celebrerà la cerimonia funebre secondo il rito coutumier (ossia il rito tradizionale congolese). Le donne indosseranno il pagne de deuil (l’abito in tessuto wax africano con i colori del lutto) e sulla collina verrà realizzato un monumento con le pietre tipiche di Makabana. Definito ogni dettaglio, ritorniamo a valle dove ad attenderci ci sono centinaia di persone che ci offrono da bere. Seduti sotto il patio del negozio beviamo una bibita e prima di ripartire regaliamo pacchetti di biscotti ai più piccoli del villaggio.
Una volta saliti in macchina proseguiamo verso il fiume e ad ogni sosta incontriamo persone con cui scambiamo qualche parola.
Di ritorno al villaggio è impossibile ripartire senza fare un giro in mountain bike, ce lo chiedono i bambini, e dinanzi a tale richiesta non si può che accontentarli. Non avevo mai guidato una mountain bike su strade sterrate come quelle di Makabana, salite e discese ripidissime, polvere rossa che si alza e si infila dappertutto, l’aria calda che toglie il respiro. A seguirci sono una ventina di bambini, corrono e cantano accanto a noi ed è sbalorditivo come al nostro passaggio altri bambini sbucano da ogni parte e si uniscono al gruppo. Quando siamo in salita battono le mani a ritmo e ci incoraggiano <<Ce la potete fare! Forza!>>; quando siamo in discesa gridano <<Andate piano, usate i freni!>>. Tagliamo il traguardo dell'arrivo con un centinaio di bambini. Dopo aver messo le biciclette e la frutta (che ci è stata offerta in dono) sul pick-up, i bambini circondano la macchina e tra cori, danze e sorrisi ci accompagnano fino all’incrocio dove finisce il villaggio. I cori che intonano raccontano della “luce bianca” andata via e da quando è partita è scesa “l’oscurità”. Parole di un'intensità emotiva che arrivano come “pugni” nello stomaco. Parole che fanno capire quanto profondo ed indelebile sia il segno che la Famiglia Barreto ha lasciato qui.
Sono le 18:20 quando ci lasciamo Makabana alle spalle e rientriamo a Dolisie. Il sole tramonta veloce e dopo meno di quindici minuti è buio pesto. Abbiamo percorso la strada nell’oscurità più totale e avvolgente dell’Africa.
Una doccia veloce perché Maman Doria ci aspetta per la cena. Una donna tipica africana dal sorriso dolcissimo ci accoglie nel suo ristorante Chez Maman Do. Maman Dorian ha cucinato per noi piatti tipici della tradizione congolese: riso bianco, spinaci e melanzane locali, bouillon de courges avec poulet (brodo di pollo con polpette di semi di zucca), missala du Niari (gamberi di fiume tipici di questa zona), platani fritti e foufou. Prima di augurarci buon appetito ci invita a brindare con un bicchiere di vino di palma. A fine cena non posso non complimentarmi con lei, la sua cucina è semplice, genuina ed i suoi piatti rispettano la tradizione congolese senza cercare nulla di “moderno”.
Nel silenzio della notte penso ai paesi dove la tecnologia ha raggiunto livelli inimmaginabili, mentre qui, in questa parte di mondo, il tempo sembra essersi fermato. Due mondi del tutto diversi, una realtà questa, che con tutta la sua forza ti riporta con i piedi per terra e ti fa riflettere su quante cose inutili abbiamo, su quanto spesso ci complichiamo la vita senza motivo. A fine giornata un turbinio di pensieri non mi fanno addormentare, sarà la stanchezza che mi farà crollare in un sonno profondo.
Il risveglio nella città rossa: Dolisie
Sono le sei del mattino quando con Bruno e Sonia ci ritroviamo affacciati al balcone con gli occhi che guardano il sorgere del sole. Le montagne sullo sfondo ed una brina leggera rendono l’aria mattutina magica.
Giù, nel cortile di una casa di fronte al KM Hotel, c’è un bambino intento a riempire secchi d’acqua per potersi lavare, un giovane adolescente (forse suo fratello), a piedi scalzi e in pantaloncini, esce in giardino con spazzolino e dentifricio; un cane giocherellone riesce a svincolarsi dalla catena ed insegue galline e bambini. È domenica mattina e si vede già qualche donna in abito elegante che, a piedi, si dirige verso la chiesa. Immagini di una semplicità sconvolgente.
La colazione è stata lenta, ci siamo goduti il nostro risveglio tra racconti e lunghi silenzi coccolati da un cappuccino, qualche fetta di pane caldo e marmellata del frutto di baobab.
Frederico ha una piantagione di mais nella zona di Kibouba, ad un centinaio di chilometri da Dolisie, deve incontrare alcuni lavoratori e noi decidiamo di seguirlo. Prima di partire, però, facciamo un giro tra le vie di Dolisie, città capoluogo del Dipartimento del Niari. Le strade asfaltate sono poche e la terra rossa rende il paesaggio suggestivo ed unico nel suo genere. L’aria è intrisa di erba cipollina, pianta aromatica che viene coltivata qui e poi venduta sui mercati di Pointe-Noire e Brazzaville.
Passiamo a salutare Madame Gaps, moglie di Gérard Athané, uomo belga arrivato in Africa all’età di cinque anni. Gérard ha vissuto in Gabon per venticinque anni, poi si è trasferito a Dolisie dove ha sposato una donna congolese e dalla quale ha avuto due figli. La sua segheria gli ha permesso di lavorare, ma proprio quando gli affari andavano bene ha perso tutto a seguito della guerra civile che a fine anni novanta ha messo il paese a dura prova. Gérard trascorrerà un lungo periodo a Pointe-Noire e quando la guerra finisce torna a Dolisie, dove però non trova più nulla. La segheria è stata distrutta…È in questo momento che anziché mollare, decide di avviare il suo ristorante conosciuto oggi come Mess Gaps. Anche qui si possono degustare piatti tipici della tradizione congolese e visitare il museo che conta oltre seicento pezzi d’arte primitiva.
Nel 2019 Gérard Athané è venuto a mancare. Quando Madame Gaps mi accompagna sotto un albero di mango dietro il ristorante non riesco a trattenere le lacrime. Una targa commemorativa scura, ai piedi dell’albero…con la voce rotta mi dice <<È qui che riposa Gérard>>. In silenzio mi soffermo a leggere il nome (Athanas Gérard Jean Marcel), le date (1945-2019) ed una frase che arriva dritta al cuore: La vita va sognata fino alla morte.
Ripartiamo da Dolisie alle 10:15 ci vorrà un’ora e mezza circa prima arrivare a Kibouba. Lungo il tragitto facciamo solo una brevissima sosta per fotografare teli pieni di arachidi lasciati ad essiccare al sole. Quando arriviamo nella piantagione di mais di Frederico, i terreni si estendono a perdita d’occhio. Il mais è stato già raccolto, ma questo non impedisce d’immaginare quanto vasta sia la piantagione. Frederico è il più piccolo dei fratelli ed è lui che in qualche modo, lanciandosi nell’agricoltura, sta continuando quello che suo papà Eurico gli ha trasmesso: l’amore per questa terra.
Ci spostiamo verso il fiume Louessé e lì dove il corso d’acqua rallenta facciamo una passeggiata a piedi scalzi nelle acque fresche della sorgente. Bruno si addentra un po’ più di me, ma a farlo tornare indietro è un osso che giace sul fondo del fiume. A guardarlo da vicino sembra essere una rotula, il sangue (ancora fresco) ed i nervetti penzolanti ci fanno pensare alla presenza di caimani. Meglio uscire!
Continuiamo il nostro viaggio tra natura e panorami mozzafiato.
A fermarci sarà una distesa di manioca lasciata al sole ad essiccare. Scendiamo per qualche scatto e nello medesimo istante io e Bruno pensiamo la stessa cosa: peccato che nessuna delle nostre foto potrà mai far sentire l’odore forte e quasi nauseabondo.
Riprendiamo la via del ritorno verso Dolisie, ma ancora una volta, Bruno nota qualcosa che vale la pena farmi vedere. Un uomo a petto nudo e asciugamano azzurro legato in vita è intento a mettere una pietra sopra l’altra. L’uomo sta alzando i muri di quella che sarà la sua nuova casa fatta di mattoni. La particolarità sta nel fatto che quest’uomo stia costruendo i mattoni da sé. Bruno aveva notato il fossato scavato nella sua parcelle (terreno)… <<È li che mette a cuocere gli stampi dai quali estrarrà i mattoni rossi>>, mi dice. L’uomo che ha sentito Bruno pronunciare questa frase, entra in casa e prende lo stampo per mostrarmelo. Con orgoglio e fierezza quest’uomo ci spiega che si sta costruendo la casa da sè, non riesco a dire nulla che non sia semplicemente <<Complimenti!>>.
Bruno torna alla guida, io riprendo il mio posto sul sedile posteriore della macchina e nel silenzio che ci ha avvolti mi ritrovo a pensare a come si senta quell’uomo, a come sarà contento di poter donare una casa fatta di mattoni ai suoi cinque figli e alla moglie. A quanto sacrificio fisico gli stia costando. A quanta ammirazione avrà la sua famiglia per lui.
Il viaggio prosegue senza sosta, il tempo scorre in fretta e noi dobbiamo rientrare a Pointe-Noire prima che inizi il coprifuoco.
Settecento chilometri in due giorni.
Un susseguirsi di incontri, racconti e lezioni di vita.
Salite, discese, curve, rettilinei e buche da evitare.
Montagne, colline, fiumi, cielo azzurro e terra rossa.
Lacrime trattenute, lacrime che hanno riempito gli occhi e bagnato il viso.
Cuore impazzito per l’emozione, cuore che si è fermato davanti alla bellezza della natura.
Sguardi e silenzi che hanno detto più di mille parole.
Custodirò tutto ciò che di prezioso questo viaggio mi ha regalato nella “scatola dei ricordi”.
Quei ricordi che, a distanza di tempo, mi faranno emozionare ogni volta che li riporterò alla mente.